Cronache da un club londinese

Dopo vari mesi in cui ho trascurato questo blog, sto ricominciando a pubblicare, e oggi vorrei parlare della mia recente esperienza in un club a Londra, città dove vivo da maggio (eh sì, proprio come speravo l’anno scorso).
Tutto è cominciato con un’uscita con le amiche a Soho: dopo aver cenato, una dice di voler andare a bere in un locale con la musica, e così ci ritroviamo in questo club, che è il nome con cui qui chiamano delle specie di discoteche, un po’ meno buie e tendenzialmente un po’ più piccole dello stereotipo di una discoteca.

La gente sembrava venuta per divertirsi: mi sono sentita completamente fuori posto.

Che posso farci? La musica ad alto volume uccide la mia capacità di conversare. Se devo urlare per far sentire ciò che dico, percepisco subito il crescente mal di gola e lo sforzo non vale decisamente il risultato. Allo stesso modo, le orecchie attutiscono i suoni in entrata (processo assolutamente fisiologico di cui non rivendico l’esclusiva) per difendersi dal bombardamento delle casse, e quindi non ho modo di partecipare alle conversazioni delle persone accanto a me: potrei sentirli solo se mi si rivolgessero direttamente, urlandomi in faccia, cosa che non fanno perché mi vedono assorta nel mio mondo ovattato. Da fuori sembro una snob, una emo, una in preda a troppe preoccupazioni per lasciarsi distrarre dalla serata al club: in realtà sono prigioniera del frastuono e, poiché le vie di comunicazione mi sono precluse, non posso far altro che osservare il tutto e rimuginare, sperando di trarre qualche considerazione filosofica dall’esperienza e possibilmente darmi un tono.
Posso cantare se conosco la canzone, quello posso farlo; ma vuoi mettere andare in un bel karaoke e cantare a turno un brano con il microfono? Non c’è paragone in quanto a divertimento.

Così mi affido ai sensi che non sono fuori gioco. Potrei interrogare il mio olfatto, e magari pentirmene amaramente qualora rilevi probabili sorgenti di tanfo, ma ho il raffreddore quindi c’è poco da odorare: unico ricordo vivido è il sentore di aria viziata nel cunicolo dove hanno collocato il servizio di guardaroba.
Il tatto non tarda a manifestarmi la maleducazione dei presenti; ballano in gruppetti da tre persone, con due principali alternative coreografiche: ondeggiare a tempo uno dietro l’altro avendo cura di strusciare voluttuosamente le parti basse, oppure saltellare avanti e indietro finché non atterrano puntualmente sulle caviglie di chi sta in piedi lì vicino, che coincide con la sottoscritta.
A questo punto la vista, che riesce a servirmi bene seppur nelle condizioni di penombra, mi assiste nel decifrare ciò che mi circonda; i ballerini maleducati sono per lo più pischelli di 20 anni: la generazione venuta dopo la mia, ma che ero troppo buona e troppo impegnata a inseguire le mie passioni per bullizzare come si meritavano. Insieme ai giovini arrapati, si nota una forte presenza di persone di mezza età: quaranta-cinquantenni che passano la serata con la loro fiamma o che si mettono sulla piazza, cercando di attirare qualcuno danzando con movenze melliflue, ma con risultati imbarazzanti.
Di persone dell’età mia e delle mie amiche non ne vedo tante, e questo si aggiunge alla mia impressione iniziale di essere fuori posto.

Per distrarmi, mi concentro sui video che vengono proiettati su una matrice di schermi televisivi, i quali costituiscono la principale sorgente di luce. La musica scelta per il locale non era deludente come quando sono andata in quel club a Leicester Square: era un misto di successi degli ultimi anni, degli anni ’90 e qualche raro classicone anni ’70/’80. Momento significativo della serata è stato quando abbiamo assistito alla formazione di ballerini con diverse divise che caratterizza l’iconico video di “Y.M.C.A.”. Durante il minestrone di brani anni ’90 non ho potuto fare a meno di notare la semplicità del trucco delle Spice Girls, se lo si confronta con gli standard di oggi: praticamente inesistente; con gli occhi assuefatti a Instagram, vedi tutte le loro imperfezioni e ti rendi conto di quanto siamo diventati severi ed esigenti con le star (e non).
Non avevo mai visto gli One Direction (prodotto che schivai in quanto destinato alla gioventù bruciata di cui sopra), ma osservare il loro video (tra l’altro cantavano una cover) mi ha dato i brividi: ho capito che il successo di boy band come queste (che ormai hanno passato il testimone agli idol coreani) è basato unicamente sull’immagine di freschezza che regalano le loro facce. Ho passato la giovinezza a snobbare simili prodotti commerciali in quanto anticonformista convinta, e cercavo sempre di motivare il mio disprezzo giudicando la loro inesistente qualità musicale. Ma l’altra sera al club, finalmente, l’ho capito: questa umanità celebra, agogna e adora la giovinezza, il valore inestimabile e caduco che nessuno può donare e nessuno riceverà (tutti la stanno ricevendo o l’hanno già ricevuta). Non puoi far altro che sospirare vedendo tale gioventù così fresca, florida, e partecipare fugacemente all’allegria che scaturisce dall’orizzonte di opportunità insite in quella condizione, in quella pelle, in quegli occhi. Pace per la musica orecchiabile di sottofondo.

Scusate se parlo in questo modo dall’alto dei miei 26 anni freschi di compleanno: sono perfettamente consapevole di essere ancora parte della schiera dei giovani. Però vedo come il tempo è passato, i parenti sono sempre più vecchi e fragili, e un certo numero di cose non sono più riservate a me, ma eventualmente a miei ipotetici figli: non frequenterò più licei né università, niente sconti nei musei per un bel po’…

Buon 2019, un po’ meno giovani, un po’ più consapevoli.

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